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Tecnopolo

Reggio Emilia, Italia

Il Capannone 19 è una grande copertura: figurativamente e tipologicamente trova espressione nella forma dello spazio vuoto e confinato. Per rispettare la struttura, gli ambienti sono stati suddivisi in moduli indipendenti, valorizzando lo spazio pubblico indoor.

Le Officine Reggiane sono una pietra miliare per la storia dell’industria della città di Reggio Emilia. Nascono nel 1904 producendo materiale ferroviario, durante la prima Guerra Mondiale si convertono in senso bellico producendo velivoli da guerra. Questo tipo di produzione, apprezzata ma temuta, fu causa del bombardamento alleato nel Gennaio 1944. Dopo la distruzione furono crisi, lotta di classe e licenziamento di massa a concludere la gloriosa storia delle Reggiane.

Nel patrimonio architettonico dell’area ex Reggiane persiste il concetto di mutamento: lavorazioni specialistiche e nuove filiere produttive hanno sempre sollecitato la dinamicità di ogni fabbricato sovrapponendo, accostando, suddividendo architettura e spazio circostante. Nel Capannone 19 era evidente la sovrapposizione fra reparti di fonderia e sbavatura: una basilica di ferro la cui navata centrale ha sempre contraddistinto lo spazio di movimentazione, prima con nastri trasportatori poi col carroponte, lasciando alle navate laterali le lavorazioni statiche, prima dei crogioli e poi dei torni.  Questa architettura, come il resto dei capannoni, riconosce anche la geografia del fascio di binari che attraversava tutta l’area produttiva.

Oggi il degrado più significativo delle Officine Reggiane, oltre l’abbandono, è il silenzio. Il degrado apparente è la testimonianza da conservare mentre quello percepito è la mancanza della componente umana e dinamica del processo lavorativo: in tal senso, il Capannone è come la scena di un teatro abbandonato i cui spazi però sono ancora in grado di suscitare emozioni, scena immobile di un teatro d’aria in cui descrivere prospettive suggerite da binari, macchine e muri usurati da tempo, fatica e lavoro. Modificare la scena è sinonimo di alterazione di memoria e realtà, inquadrarne parti è invece sinonimo di valorizzazione delle testimonianze.

In questo contesto la vera innovazione progettuale sta nella conservazione integrale: restauro totale sia del manufatto sia dei residui di processi, macchie, scritte e imperfezioni.

Il progetto consiste in una grande copertura, le cui caratteristiche figurative e tipologiche trovano espressione soprattutto nella forma dello spazio vuoto e circoscritto. La reciprocità tra vuoto e pieno, elementi lineari e volumetrici, forma e funzione, induce a percepire sia le funzioni specialistiche (laboratori e uffici) sia le pareti originali del Capannone negli spazi pubblici (foyer, sala conferenze, corridoi). Il rapporto di scala tra fabbrica e uomo è misurato dall’inserimento di volumi lignei che scandiscono la sequenza di laboratori e percorsi, articolati in galleria e allineati sul retro, configurando terrazze e percorsi per il lavoro interdisciplinare e sottolineando il rapporto tra forma e funzione.

Questa copertura è anche mediatrice della relazione tra fabbrica e contesto: appoggiandosi a terra come un manto, racchiude l’articolazione volumetrica del nuovo rispettando però la sagoma storica delle fronti, sulle quali sono stati recuperati i murales dell’artista Blu.

All’esterno, la collocazione di questi volumi serventi trova coerenza formale nella tipologia basilicale, da un lato in accostamento, dall’altro in giustapposizione: sintatticamente, sono subordinati all’architettura storica da astrazione formale e materia. Infatti, l’uso del calcestruzzo sabbiato li trasforma in monoliti astratti, lasciando all’archeologia industriale l’unico ruolo di testimonianza tecnologica, artigianale e manifatturiera.

All’interno, foyer e sala riunioni sono ricavati con separazioni trasparenti e opache. Gli impianti, come residui del processo industriale, ricalcano le geografie dei percorsi meccanici riutilizzando passaggi e forometrie. Gli spazi ad alta tecnologia dei laboratori sono realizzati mediante composizione di blocchi in legno: ancora, astrazione formale e uso di materiale naturale conferiscono all’architettura valore materico, non alterando la sintassi costruttiva del Capannone 19.

Una componente fondamentale per un luogo in cui si sviluppa ricerca è la relazione.

Forma e funzione evidenziano la qualità relazionale grazie alla dinamicità di volumi e spazi e al contatto costante con la memoria: l’ambiente si comprime e si dilata in una sequenza di spazi aperti, semichiusi e passaggi che stabiliscono relazioni tra passato e futuro, interno ed esterno, edifico e paesaggio, spazio privato e pubblico. La macchina funzionale è una soglia a diverse scale: nell’open-space di tipo urbano, richiamando le frontalità su strada, sulle terrazze di tipo pertinenziale, regolando le condizioni di vicinato tra laboratori.

Nel Tecnopolo, l’architettura storica circoscrive come un monumento lo spazio relazionale, custodendo i significati di storia e memoria, lasciando ai nuovi volumi il ruolo dinamico di organizzare e sollecitare le relazioni, e assegnando all’edifico nel suo complesso il significato più ampio di edificio pubblico, caposaldo urbano, spazio per la città, nonostante la funzione specialistica.