Inhalt

abitare... l’albero, il bosco, il legno

Al legno è concesso di rimanere se stesso: dai fantastici totem dell’Alaska – grandi colonne che sorgono dalla neve coi loro primitivi colori, innalzati al solo scopo di far mostra di sé – al flessibile arco degli Indiani d’America; dagli enormi, massicci tronchi levigati che sostengono i famosi tetti dei templi giapponesi, alle sottili impiallacciature di rari e esotici legni sui mobili europei. [...] Di tutti i materiali è il più vicino all’uomo. All’uomo piace la compagnia del legno, gli piace sentirlo sotto le mani, gradevole al tatto e alla vista. Il legno è universalmente bello per l’Uomo… [...] Usando il legno sia di piatto che in eleganti nervature, permettendo così alla grana e alla superficie serica di farsi valere addirittura in paraventi a asticelle affusolate e consentendo alle sue caratteristiche lignee di agire per l’effetto totale dell’insieme, per tutti questi impieghi plastici la Macchina si è dimostrata un docile mezzo. 

Frank Lloyd Wright, Il significato dei materiali (1928), in Per la causa dell’architettura, Gangemi, Roma 1989

L’imborghesimento del giocattolo non si vede soltanto dalle sue forme, tutte funzionali, ma anche dalla sua sostanza. I giocattoli correnti sono di una materia ingrata, prodotti di una tecnica, non di una natura. Molti, ora, sono stampati in complicati impasti; in essi la materia plastica ha un aspetto al tempo stesso igienico e grossolano, spegne il piacere, la dolcezza, l’umanità del tatto. Un segno costernante è la progressiva sparizione del legno, pur materia ideale per la sua solidità e tenerezza, per il calore naturale del suo contatto; sotto qualsiasi forma, il legno elimina il taglio degli angoli troppo vivi, il freddo chimico del metallo; quando il bambino lo maneggia e lo batte, il legno non vibra né stride, ha un suono sordo e netto insieme; è una sostanza familiare e poetica, che lascia il bambino in una continuità di contatto con l’albero, il tavolo, l’impiantito. Il legno non taglia, né si guasta; non si rompe, si consuma, può durare a lungo, vivere col bambino, modificare a poco a poco i rapporti fra l’oggetto e la mano; se muore lo fa riducendosi, non gonfiandosi come quei giocattoli meccanici che spariscono sotto l’ernia di una molla spezzata. Il legno fa oggetti essenziali, oggetti di sempre. 

Roland Barthes, Miti d’oggi (1957), Torino, Einaudi, 1974

Allora Marco Polo parlò:  »La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di spuntare in un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l’obbligò a desistere.« Il Gran Kan non s’era finallora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. »Ecco un poro più grosso: forse è stato il nido d’una larva; non d’un tarlo, perché appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto per essere abbattuto... Questo margine fu inciso dall’ebanista con la sgorbia perché aderisse al quadrato vicino, più sporgente.« La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre... 

Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972

Si deve tagliare il legname nel periodo che va dall’inizio dell’autunno fino al momento che precede lo spirare del favonio. In primavera, infatti, gli alberi, gonfi di vita, effondono tutta la loro linfa nelle foglie e nei frutti. [...] Naturalmente gli alberi sono tra loro differenti e presentano differenti qualità. Così è per la quercia, l’olmo, il pioppo, il cipresso, l’abete e altri ancora, tutti invero assai indicati per l’edilizia. 

Marco Vitruvio Pollione, De Architectura, ca. 30 a. C.  

Siccome sopraggiungeva la notte, cominciai con cuore grave a considerare quale sarebbe stata la mia sorte se in quel paese vi fossero state bestie fameliche, visto che di solito è di notte ch’esse escono a predare. L’unico rimedio che mi si presentò alla mente allora fu di salire su di un albero, una specie di abete, folto e fronzuto ma spinoso, che cresceva lì vicino; e lì decisi di passare la notte, e meditare di quale morte saREI morto il giorno dopo, perché ancora non vedevo alcuna possibilità di sopravvivere. Mi allontanai dalla spiaggia per circa duecento iarde per cercare dell’acqua da bere, e con mia grande gioia la trovai; e dopo aver bevuto e essermi messo in bocca un po’ di tabacco per ingannare la fame, andai all’albero e vi salii, e cercai di mettermi in una posizione da cui non potessi cadere se mi fossi addormentato; e, dopo essermi tagliato una mazza, una specie di corto bastone, per difendermi, presi alloggio fra i rami dell’albero, e essendo estremamente affaticato, caddi in un sonno profondo, e dormii tanto comodamente come, credo, pochi avrebbero saputo fare nella mia condizione; e ne fui più ristorato di quanto non fossi mai stato, credo, in una tale situazione. 

Daniel Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe (1719), Torino, Einaudi, 1998   

Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri uguali a noi! Quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pan ecc. e entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati dalle Naiadi ecc. E stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani, credendolo un uomo o donna… Giacomo Leopardi, Zibaldone, (1820), Milano, Mondadori, 1993   Cosimo stava volentieri tra le ondulate foglie dei lecci e ne amava la screpolata corteccia, di cui quand’era sovrappensiero sollevava i quadrelli con le dita, non per istinto di far del male, ma come d’aiutare l’albero nella sua lunga fatica di rifarsi. O anche desquamava la bianca corteccia dei platani, scoprendo strati di vecchio oro muffito. Amava anche i tronchi bugnati come ha l’olmo, che ai bitorzoli ricaccia getti teneri e ciuffi di foglie seghettate e di cartacee samare; ma è difficile muovercisi perché i rami vanno in su, esili e folti, lasciando poco varco. Nei boschi, preferiva faggi e querce: perché sul pino le impalcate vicinissime, non forti e tutte fitte di aghi, non lasciano spazio né appiglio; e il castagno, tra foglia spinosa, ricci, scorza, rami alti, par fatto apposta per tener lontani. 

Italo Calvino, Il barone rampante, (1952), Milano, Mondadori, 1991   

Per individuare la psicologia del »soggetto«, gli si chiede di disegnare un albero. È a questo punto che inizia la suspense, perché non esistono due alberi identici, né in natura né sulla carta. […] Si comprende allora che se ci sono uomini che nel loro disegno privilegiano il livello sotterraneo dell’albero, ce ne sono altri che invece se ne allontanano istintivamente. Probabilmente questi ultimi accorderanno la loro preferenza al tronco. È l’elemento verticale dell’albero, quello che simboleggia lo slancio, lo sviluppo, la freccia rivolta verso il cielo, la colonna del tempio. L’uomo d’azione dotato di una dimensione spirituale si riconosce in questa parte dell’albero. Ma c’è altro. Il tronco non fornisce soltanto l’albero della nave. Dà anche il legno, materiale della tavola, della trave, del ceppo. Il suo colore, le sue linee, i suoi nodi e persino il suo odore parlano potentemente all’immaginazione. 

Michel Tournier, Immagini, paesaggi e altre piccole prose, Milano, Garzanti, 1990

Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore. Ecco io manderò il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne, in cui è alito di vita; quanto è sulla terra perirà. Ma con te io stabilisco la mia alleanza. 

La Sacra Bibbia, Genesi, Edizione CEI, 2003   

Il Cimone è un fiume, il quale scendendo dai monti, che dividono l’Italia dalla Germania entra nel Brenta alquanto sopra Bassano; e perché egli è velocissimo, e per lui i montanari mandano giù grandissima quantità di legnami, si preferì soluzione di farvi un ponte, senza porre altrimenti pali nell’acqua. [... ] La invenzione di questo ponte a mio giudizio è molto degna di avvertimento, perché potrà servire in tutte le occasioni, nelle quali si avessero le dette difficoltà; e perché i ponti così fatti vengono a esser forti, belli e comodi: forti perché tutte le loro parti scambievolmente si sostengono; belli perché la tessitura della legna mi è graziosa; comodi, perché sono piani, e sotto una stessa linea con il rimanente della strada. 

Andrea Palladio, I quattro libri dell’architettura, Domenico de’ Franceschi, Venezia 1570   

Il mio amico del Kairakuen non tollera le piastrelle, e i bagni del suo albergo sono completamente rivestiti di legno. È tuttavia evidente che le pareti piastrellate sono più economiche, e più pratiche anche. Qualcuno usa un bel legno giapponese per il soffitto, le colonnine e gli infissi, e copre di piastrelle le pareti. Soluzione relativamente accettabile finché tutto è nuovo, ma, via via che il legno acquista l’elegante patina della stagionatura, il liscio biancore delle piastrelle stride sempre di più. 

Junichiro Tanizaki, Libro d’ombra (1933), in Opere, Milano, Bompiani, 2002   

Come vogliono le usanze persiane, il governatore ha dato un ricevimento. L’occasione ha richiamato in vita il Chihil Sotun, trasformandolo improvvisamente da dimora estiva in disuso nel grandioso padiglione per le feste che fu in origine. Coperta di tappeti, illuminata da piramidi di lampadine e animata da varie centinaia di persone, la veranda sembrava immensa: le colonne di legno e la tettoia dipinta si levavano altissime nella notte; la nicchia di vetro del fondo luccicava da una distanza infinita dentro la filigrana d’oro.

Robert Byron, La via per l’Oxiana (1937), Milano, Adelphi, 2000   

Lo splendore del Bosforo è dovuto al fatto che per molti chilometri si naviga sempre tra due rive simili al lago di Como nel punto più bello, Bellagio-Cadenabbia. Tra la montagna e l’acqua, quasi mai lo strapiombo, ma qualche centinaia di metri di campo e di giardino, e le stupende palazzine bianche dei sultani dell’Ottocento. […] I villaggi sulle due sponde sono intensamente ottocenteschi e abbastanza russi, »tutto un Cechov!«, con le case di legno sull’acqua… 

Alberto Arbasino, Dall’Ellade a Bisanzio (1960), Milano, Adelphi, 2006   

Ciò che il tempio di legno ci può insegnare è questo: per entrare nella dimensione del tempo continuo, unico e infinito la sola via è passare attraverso il suo contrario, la perpetuità del vegetale, il tempo frammentato e plurimo di ciò che s’avvicenda, si dissemina, germoglia, si dissecca […] Il tempio di legno tocca la sua perfezione quanto più è spoglio e disadorno lo spazio in cui ti accoglie, perché bastano la materia in cui è costruito e la facilità con cui lo si può disfare e rifare uguale a prima a dimostrare che tutti i pezzi dell’universo possono cadere a uno a uno ma che c’è qualcosa che resta. 

Italo Calvino, Il tempio di legno, in Collezione di sabbia, Milano, Mondadori, 1990   

Mi piace ricordare il giudizio di Mazzariol dove si parla di una Venezia pre-monumentale, una Venezia non ancora bianca delle pietre del Sansovino e del Palladio. La Venezia del Carpaccio che io vedo nelle luci dell’interno, nel legno, come in certi interni olandesi che ricordano le navi e sono vicine al mare. Questa Venezia di legno era anche più legata al delta padano, ai ponti che attraversano i canali e di cui il ponte dell’Accademia, sia pure ottocentesco, offre un’idea migliore del ponte di Rialto. 

Aldo Rossi, Autobiografia scientifica, Pratiche Editrice, 1990   

A mano a mano che ci avviciniamo, la capanna mostra tutta la solidità dei tronchi con cui fu costruita. La porta non esiste più e le finestre sembrano orbite vuote.  […] »La costruirono nel 1913. Quei due erano bravi falegnami. Guarda come sono rifiniti bene i travi,« indica Pablo Casorla. In effetti i travi anneriti che sostengono il tetto mostrano l’eccellente lavoro di mani che sapevano usare la sgorbia e la pialla, l’arte dell’incastro preciso. »I due« a cui si riferisce erano noti sotto diversi nomi in Patagonia e nella Terra del Fuoco. Wilson e Evans. Don Petro e don José. Ma tutto indica che erano Butch Cassidy e Sundance Kid. Costruirono varie capanne nel sud del mondo. 

Luis Sepulveda, Patagonia Express, Milano, Feltrinelli, 1995   

Per qualche strano motivo, non c’è nulla che possa battere l’atmosfera che si respira in una casa costruita in legno. Mi piace il cemento e amo le chiese romaniche in calcare, ma il legno massiccio possiede un fascino davvero unico. Quello che mancava nelle tradizionali case in legno era la luce. Nelle case più recenti, invece, c’è n’è tantissima, grazie alle enormi finestre che incorniciano il panorama. È una specie di combinazione del modernismo, con i pavimenti fluttuanti, e questo antico materiale. […] Ci sono materiali che ti tolgono energia. Il legno non ha bisogno dell’energia della tua pelle. Non importa se fa caldo o freddo: in un edificio in legno, la temperatura che avverti è sempre vicina a quella che vorresti. Se fa molto caldo, è sempre inferiore di 2 o 3 gradi, e viceversa. Il legno non ha bisogno di te: sta lì e basta. 

Peter Zumthor, Conversazione con Patrick Lynch, The Architects’ Journal, 2009 (traduzione P. Pavesi)